martedì 24 marzo 2020

#STEP 01 bis+STEP 02 -STORIA DELLA PAROLA "INNOVAZIONE"

mappa concettuale sulla storia dell parola "INNOVAZIONE"

Il "Dizionario controfattuale dell’innovazione" di Matteo Pelliti, pubblicato in collaborazione con "Città intelligenti", è un glossario incongruo fatto di indagini storico-etimologiche che aprono varchi nella stolida compattezza delle parole d’ordine della modernità. Un antidoto ai tic gergali e alle coazioni al nuovo, da somministrare, parafrasando Montale, agli “innovatori che non si voltano”.  Ecco di seguito, ciò che Pelliti scrive riguardo il termine "innovazione".

"Innovazione” è la ventunesima e, necessariamente, ultima voce del Dizionario controfattuale dell’innovazione. Abbiamo fatto ventuno, come ventunesimo è il secolo che ci sta portando nel futuro a suon di spintoni. Alle rapide certezze delle “magnifiche sorti e progressive” abbiamo provato a opporre l’esitazione della pensosità: per tornare ad affermare, con uno slogan platonico, che innovare è conoscere.

Ciò che hai ereditato dai padri
Acquistalo per possederlo!
Ciò che non serve è un carico pesante;
Solo ciò che l’attimo crea, esso può utilizzare.
(Goethe, Faust, I, 682-685)

Esiste una differenza tra “innovare” e “innovazione”? Torniamo per qualche riga all’etimologia: in-novare, cioè “rendere nuovo”, rimanda alla novità del “nuovo” la cui radice è antichissima e largamente comune alle lingue indoeuropee per indicare tutto ciò che è giovane, recente, che è nato da poco, che non è vecchio ed è… nuovo, appunto, il νέος greco. La dialettica interna al termine, però, quella che mette a contatto in un divenire innovazione e arcaicità, si è persa nel momento in cui “innovazione” ha iniziato a legarsi, nel linguaggio comune, quasi esclusivamente all’idea di “tecnologia”, di téchne. Per qualche riga facciamo un passo ancora più indietro, e precisamente al Cratilo di Platonedialogo che investiga la correttezza dei nomi”, vale a dire la relazione tra un nome e il suo referente, mettendo in discussione se questa relazione sia di tipo naturale o convenzionale. Nella lunga galoppata “etimologica” del Cratilo, che è pure una specie di piccola enciclopedia della cultura greca del tempo (IV secolo a.c.) Socrate ci dice, tra le varie etimologie più o meno fondate che va ricostruendo: Del resto, ancora, la stessa νόησις (= lo stesso pensiero) è τοū νέου έσις (= desiderio del nuovo), ed essere νέα (= nuovi) per gli enti vuol dire essere sempre γιγνόμενα (= in divenire): pertanto colui che assegnò il nome di νεóησις (neóesis), indica che l’anima tende a questo” (Cratilo, 410 E – 412 A). “Innovazione” oggi, al contrario, si è sostanzializzata, reificata, e la parola non evoca più la mobilità fluida del processo conoscitivo, del tendere a qualcosa che, dinamicamente, non c’è ancora quanto a qualcosa che è il risultato di un processo. Ogni processo conoscitivo è, di per sé, innovazione. Detto con uno slogan “platonico”: conoscere è innovare. Quel che si è depositato nel termine, invece, soprattutto negli usi attuali più discorsivi, è qualcosa di ancora – per me – profondamente ottocentesco: l’innovazione è tale se risulta essere qualcosa di esportabile industrialmente, riproducibile in serie (le sedie di legno curvo di Thonet a metà Ottocento). L’illusione della “democraticizzazione dell’innovazione”, infine, si condensò in una celebre frase di Henry Ford, usata anche in tempi recenti come claim pubblicitario: “C’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti”. Ma a quale costo? E chi sono questi “tutti”?

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